Finora vi ho parlato delle bellezze storico-artistiche e
paesaggistiche della Tuscia, delle sue eccellenze enogastronomiche, degli
eventi religiosi, folkloristici e culturali più importanti. Questa volta voglio
raccontarvi una storia fatta di gesti quotidiani, lavoro e passione. Ma
soprattutto è una storia d’amore verso una città: Viterbo.
Tutto parte da Barbara, una simpatica ragazza che da
circa un anno è entrata a far parte della mia cerchia di amici: vuole far
conoscere a me e a mio marito suo nonno, Mario Matteucci, il proprietario dell’antico frantoio
“Il Paradosso”. Mario, in realtà, è una star. È già apparso in tv più
volte, tutti lo conoscono, fa parte della storia di Viterbo, vengono a trovarlo
da tutto il mondo. Anch’io, moltissimo tempo fa, avevo avuto modo di visitare
il suo frantoio durante un evento pubblico,
ma stavolta l’esperienza è stata totalmente diversa: l’atmosfera di
confidenza ha reso tutto ancora più piacevole. Tutto più “sentito”. Anche per me ormai è Nonno Mario.
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Mario ci mostra gli strumenti più antichi del frantoio di famiglia |
Nonno Mario afferma con fierezza che con lui l’attività
della famiglia Matteucci va avanti da quattro generazioni (anche se in realtà si è arrivati alla quinta con il figlio) e ci mostra con
orgoglio le foto in bianco e nero che ritraggono i primi lavoratori del
frantoio: immagini che ha fatto ingrandire in modo da poterne vedere i volti,
affinché quelle fatiche non vengano mai dimenticate. Avevano le scarpe fatte di
juta e poi dice “adesso abbiamo tutto e non abbiamo niente”. Parole che
potrebbero suonare come un luogo comune, ma che davanti a quelle immagini
assumono un sapore di solenne verità. Rimango in silenzio e accolgo le sue
parole come se provenissero da un oracolo.
Ci conduce nel suo piccolo Museo dell’Olio, una grotta
nel tufo in cui sono esposti gli antichi macchinari del frantoio, quelli che
funzionavano “quando la corrente elettrica ancora non c’era”, dice, che
appartengono alla sua famiglia da generazioni e che lui ha conservato
gelosamente: ribadisce più volte che ci tiene a quelle cose, che ha fatto di
tutto per conservarle e che non si fida neanche a farsele restaurare da altri
per timore che gliele rovinino.
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I lavoratori del frantoio tanti tanti anni fa |
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Mario nel suo Museo dell'Olio |
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Una delle prime macine |
Ad un certo punto avverte un rumore che non lo convince e apre una porta per controllare: è la stufa a sansa che serve a riscaldare il suo appartamento al piano di sopra. Qui nel frantoio, dunque, non si butta via nulla, neanche gli scarti di lavorazione, che vengono usati come carburante da riscaldamento. Nei secoli scorsi il frantoio era anche la fabbrica dei vari macchinari per la produzione dell’olio, per la filatura della canapa e della fibra di cocco. Ed è proprio per la lavorazione della fibra di cocco che i Matteucci si distinsero e diventarono famosi in tutto il mondo. La facevano arrivare dall’India e con essa producevano corde, ma soprattutto fiscoli, una sorta di sacche che venivano riempite di pasta di olive, poi impilate nel torchio e infine pressate. Ne usciva un succo che poi si lasciava decantare per separare l’acqua dall’olio, che veniva infine raccolto in appositi contenitori. Oggi i macchinari moderni prediligono l’uso di fiscoli in polipropilene, ma Nonno Mario continua a lavorare la fibra di cocco e ci mostra orgoglioso le sue creazioni: ha trasformato i fiscoli in cestini e borse da donna, ma con la stessa tecnica di lavorazione realizza anche tappeti e articoli decorativi, “l’oggettistica” dice “l’ho inventata io”.
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Il torchio per la spremitura delle olive con la pila di fiscoli. Alle pareti sono appesi quelli più antichi |
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Tornio per la fabbricazione di utensili destinati alla lavorazione della fibra vegetale. |
Passiamo di grotta in grotta, carichi di storie, ci
mostra le foto degli antenati e della sua gioventù. Ci racconta di quando aveva
sei anni e il padre gli diceva di sbrigarsi a fare i compiti perché doveva
scendere al frantoio a dare una mano. C’era da lavorare, di lì a poco la guerra
li colpì e allora non ci fu più spazio per i compiti: alla fine del conflitto
si dovette ricostruire tutto, la scuola fu abbandonata perché bisognava rimettere in piedi l’attività di famiglia. Ed è proprio durante la guerra che
i Matteucci avevano potuto sfruttare a proprio vantaggio le grotte che si
aprivano nella loro proprietà: diventarono rifugi antieaerei collegati con quel
reticolo di cunicoli che caratterizzano il sottosuolo di Viterbo e che all’occasione
fungevano da preziose vie di fuga. In questa sorta di bunker conserva ancora i
cimeli di guerra: maschere antigas, taniche di carburante americane e tedesche,
elmetti, bossoli di proiettili di vario calibro.
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L'ingresso al rifugio antiaereo |
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Cimeli di guerra nel "bunker" della famiglia Mattucci |
Ci mostra anche un macchinario, sempre di quelli “senza
corrente” per intrecciare le corde:
ancora attaccata ce n’è una, spessissima, che fu realizzata da lui per una
scena dell’Armata Brancaleone di Monicelli. Ci parla della filatura della
canapa che proprio lì, nella valle del Paradosso, si coltivava già dal medioevo
e ci fa vedere un pezzo di un antico lenzuolo tessuto con fili sottilissimi:
lamenta il fatto che non sia riuscito a salvare il telaio e promette che ne
farà realizzare uno simile a quello che aveva. Passa infine alla prova pratica:
con l’aiuto di Barbara, si lega della canapa grezza attorno alla vita e fa una
dimostrazione di filatura per mezzo di un apposito macchinario a manovella, che
lui ha fatto riprodurre imitando fedelmente quello più antico esposto nel suo
museo.
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La corda realizzata per una scena dell'Armata Brancaleone |
Rimaniamo estasiati non solo dall’animo di questo giovane
ottantenne che va a prendere, correndo (nel senso che si è messo davvero a
correre, con un’agilità che non ho neanch’io che di anni ne conto meno della
metà dei suoi), l’ultima corda realizzata, ma anche dalla squisitezza dell’olio
da lui prodotto, che ci fa degustare su un letto di pane abbrustolito. Nonno
Mario mi ha trasmesso un grande entusiasmo, ma allo stesso tempo mi fa pensare
a tutto quello che stiamo perdendo: le tradizioni, per esempio. È l’ultimo
detentore dell’arte dell’intreccio dei fiscoli, il suo sogno è creare una
scuola per le generazioni future. E poi quella luce negli occhi…guarda sempre
avanti Nonno Mario, oltre le difficoltà e le tragedie più grandi come quelle
della guerra. Una scuola di forza, ecco cosa ci vorrebbe.
Per visitare il frantoio potete contattare direttamente Mario Matteucci al numero 3296291902: vi preparerà anche un'ottima bruschetta di pane caldo e olio extravergine d'oliva del frantoio "Il Paradosso".
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